Il mio sogno è vivere disegnando. Ma è stato interrotto dalla guerra

#Resistenza #Seconda_guerra_mondiale #Italia

28 settembre 2024

 

L’esperienza della “pittrice di San Giacomo” e delle sue amiche è materia del romanzo Il villaggio messo a fuoco del bovesano Nino Berrini, scritto tra il settembre 1943 e il dicembre 1945.
Le informazioni per questa narrazione, rielaborate da Elisa Dani e Francesca Reinero, sono tratte da Boves Storie di guerre e di pace (edizioni Primalpe, a cura di Michele Calandri).

Testo di Elisa Dani. Illustrazioni di Francesca Reinero

Gli sfondi delle carte provengono da Openstreetmap

 
 

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Quadro I

Io. Adriana Filippi. Pittrice.

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Nasco a Torino il 25 settembre 1909.
Appena diplomata all’Accademia Fiorentina di Belle Arti, lascio la città.
Già sotto i bombardamenti.
Mi trasferisco a S. Giacomo di Boves.
Ultimo villaggio alpino della Valle Colla.
Sotto le pendici pietrose del monte Bisalta.
A pochi chilometri da Cuneo.
Con mia madre. Margherita. Compagna inseparabile.
Qui svolgo l’incarico di maestra elementare.
E non solo.
Divento una collaboratrice del primo e più importante gruppo partigiano della Valle Colla.
Quello guidato da Ignazio Vian.
Il mio sogno è vivere disegnando.
Ma è stato interrotto dalla guerra.

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La mia passione però continua.
A San Giacomo raffiguro la resistenza partigiana.
Con 150 opere.
Disegni. A semplice carboncino.
Tele con tempere a olio.
Schizzi. Testimonianze storiche.
Che raccontano di nascondigli segreti.

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Volti protagonisti.
Episodi di vita quotidiana. Baite.
Lunghe attese di una pattuglia che tarda ad arrivare.
Sguardi da una finestrella affacciata sulla valle innevata.
Mamma Margherita seduta su assi sconnesse.
Con in grembo un ferito.
Un giovane ucciso con il volto nella neve.
Messaggi di primavera accostati al cappello alpino e al Carcano ’91 [1].
Tutte opere nascoste. In casse interrate.
Riportate alla luce solo dopo la fine delle ostilità.

Quadro II

Coraggiosa: sì.
Apparsa lassù.
Ai piedi della Bisalta.
Stranamente apparsa.
In quell’alta borgata di montagna.
Con cavalletto. Scatola di colori. Tela.
E poche masserizie.
D’inverno avvolta di lana.
Con scarponi e calzoni da sciatrice.
Passamontagna in capo che mi chiude il viso.
Come una madonna bruna di Leonardo.
Come in una cotta di maglia medievale.
Affondata in certe buche di neve a cogliere paesaggi invernali.
Volti di montanari. O volti di ribelli.
Guardando in faccia la guerra.
È vero che la pittrice di San Giacomo ti fa il ritratto?
Come un’eco nella valle.

Tableau III

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La scuola è un edificio quasi a picco sul torrente Colla.
Due aule spaziose a cui si accede da un lungo balcone.
Per ogni aula un mini alloggio per le maestre.
Stufa a legna e lo stretto necessario.
Ecco come sono i ragazzi:
zoccoli di legno nero.
Mantelline corte e calze di lana grezza.
Un inseparabile berretto di lana per tutte le stagioni.
Due mele cotte nelle tasche per scaldarsi le mani d’inverno.
In primavera un mazzolino di primule e viole.
Pervinche e nontiscordardimé: per le maestre. Sempre.
Le assenze corrispondono a una logica di sopravvivenza.
La vita dei montanari è tutta qui: attaccata ai pochi frutti della terra e degli alberi.
Qui. Ci manca tutto per studiare bene.
Ci mancano i libri. Ci mancano i quaderni. A volte ci manca l’inchiostro.
Eppure si lavora intensamente.
Per la coscienza di fare bene.
Vita, vita, vita!
Parlerò. Parleremo insieme. Guarderemo il mondo che abbiamo attorno.
È difficile l’insegnamento: più difficile che la vita stessa.
Io insisto con i miei alunni perché vengano tutti.
Ma purtroppo so che quelli che ne hanno maggior bisogno non verranno.
Perché andranno a servizio.
Mi interesso delle loro condizioni di vita.
Presto loro un’assistenza che va al di là dei compiti scolastici.
Anche durante le vacanze.
Frequento le loro case.
Per non creare troppo distacco tra scuola e famiglia.

Quadro IV

L’insegnamento è per un decennio: dal 1937 al 1947.
Dalla scuola fascista. Dallo stesso scenario andato in pezzi. Inaridito.
Ai sussulti di ribellione bovesana del 1943. Nell’ansia di un avvenire oscuro.
Ho vissuto in prima persona la guerriglia partigiana tra settembre 1943 e gennaio 1944.
La babele dello sbandamento.
La prima organizzazione militare dei ribelli.
La sfida al colosso tedesco.
Il 19 settembre 1943. L’incendio di Boves.
Il massacro della popolazione civile intenta alle proprie occupazioni quotidiane.
Le quattro giornate di rastrellamento.
Il 31 dicembre 1943.
L’1, il 2, il 3 gennaio 1944.
È il 10 settembre 1943.
Sono nell’aula della scuola con gli alunni che devono sostenere l’esame di riparazione.

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I bambini sono un po’ distratti. Li faccio uscire per una breve passeggiata.
Al di là del torrente Colla. Distrarsi con la pittura.
Cavalletto e tavolozza. Cassetta dei colori.

La realtà idilliaca di San Giacomo.
Fatta da una maestrina e da un gruppo di bambini vocianti.
E montanari intenti nei lavori autunnali. Finisce. Qui. Al termine della passeggiata.
Arrivano le prime avvisaglie della tragedia che sta per abbattersi sul borgo.
Pare che i tedeschi stiano per arrivare a Cuneo.
Ma cosa fa, qui, pittrice? Venga a scaldarsi un po’ nella mia stalla.
Buona sera signora maestra venga su a bere una tazza di latte.
Andiamo incontro a tempi difficili.

Quadro V

Ho scritto tutto in un diario.
Un romanzo incompiuto. Il mio.
Un affresco di vita partigiana.
Della durata di 90 giorni.
Dal 19 settembre al 31 dicembre 1943.
Perché la guerra non è un affare da uomini.
Un corpo a corpo tra guerrieri.

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È giovedì 16 settembre ’43.
Le donne bovesane sono obbligate dai tedeschi a salire nelle vallate.
Castellar. San Giacomo. Rosbella.
A indurre gli uomini ad arrendersi.
E loro. Le donne. Al contrario li incitano. A rimanere liberi e armati.
A difendere il paese stravolto dalla guerriglia e dalla rappresaglie contro i civili.

Il mio piccolo alloggio diventa piccolo ospedale e ambulatorio.
Mia madre e io: infermiere.
Un impulso ribelle di soccorso.
Con mezzi di fortuna.
Ricorriamo anche all’uncinetto.
Per estrarre schegge dalle ferite.

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La scuola è l’osservatorio più importante della storia della banda di Boves.
Il suo capo: Ignazio Vian.
Il capo dei ribelli.
Le sue parole in un’aula della scuola:
noi siamo qui per dimostrare che l’esercito italiano esiste ancora.
Lo dimostreremo con coraggio e disciplina.
Le nostre caserme saranno le baite collegate da portaordini.

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Siamo soldati e non bande di sbandati.
La formazione Vian insedia il comando all’uscita della frazione a fine settembre.
Vedo Ignazio passeggiare a cavallo per San Giacomo.
Il suo cavallo dal pelo rossiccio. E poi allontanarsi al trotto lungo la via Buscajè.

Ehi maestra!
In guerra bisogna fare economia di tutto.

Lui. Esige disciplina militare.
È pignolo estremamente pignolo.
Talvolta anche crudele nell’imporre la disciplina.
Vuole che si indossino le divise. E le divise devono essere in ordine.
Trasformiamo l’aula scolastica, poi il nostro alloggio in un’improvvisata sartoria.
Per mettere in ordine le uniformi.
Con l’apporto generoso di alcune donne della borgata.

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Vian e Franco entrano. Insieme al colonnello.
Il colonnello si affaccia al laboratorio con uno sguardo di approvazione.
Sono veramente contento di come ho trovato la vallata.
Non immaginavo un’organizzazione così solida.
Tutti siamo immobili e silenziosi. Paralizzati da una magia.
Tutto questo fa venir voglia di piangere. Dice Giovanna.
Sottovoce come temesse di rompere l’incanto.

I tedeschi occupano anche la scuola.
Noi saliamo alle grange delle Crocette.
La federazione fascista e il comando militare tedesco ora sorvegliano anche noi.
Perquisiscono il nostro alloggio. Pieno di zaini militari. Munizioni. Armi.
Pieno. Fino al giorno prima.
Infatti quando arrivano non trovano nulla.
Tutto scomparso come per incanto.

Quadro VI

Le quattro giornate di rappresaglia di fine anno hanno inizio.
Numeri che ritornano.
31 dicembre ’43.
1, 2 e 3 gennaio ’44.
Ci nascondiamo.
Tra i fienili delle baite dei Riss.

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Dei Filibert.
Delle Crocette e dei Badari.
Tra fucili. Nastri di cartucce e bombe.
Sono giorni di rappresaglie nelle frazioni.
Castellar, San Giacomo, Rosbella.
Un colpo di cannone si schianta contro il muro della chiesa.
Il campanile della chiesa di San Giacomo viene troncato a metà.
Altri colpi tra i boschi. Tutto brucia. Nelle valli.
Munite del cestello farmaceutico raggiungiamo con un camioncino la villetta del Tus.
Dove funziona un ospedale di fortuna. Fanno giravolte di danza intorno a noi donne. I ribelli.
Joseph il russo suona Occhi neri col suo violino.
Un giorno: un’orgia di sangue e musica.
Quando tutto è finito.
Dalla soglia della scuola.
Contiamo i danni.
Mamma Margherita e io.

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Riconosco la cordicella nera che lega insieme i miei disegni.
Infiniti pezzetti di carta bruciata.
Neri.
Volano leggeri nell’aria. Ricadono e si disperdono.
In mano mi resta un pezzo di cordicella.
Non riesco più a pronunciare parola.
Sto lì, inginocchiata a riempirmi di freddo.
A tossire senza curarmi di asciugare le lacrime che mi scendono fin sul cappotto.
L’alloggio è immerso nel buio.

Quadro VII

Vian diceva: bisogna saper guardare la morte negli occhi.
Ora disilluso dice:
le valli non contano niente.
In pianura bisogna buttarsi.
In pianura. A rafficare le macchine.

La battaglia del ‘43 si è esaurita.

3 gennaio.

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Vian rimane per tutto l’ultimo giorno avvolto in una coperta.
Tra le rovine del campanile.
Un altro Vian.

Ignazio Vian.
io me lo ricordo così.
Avvolto nel suo mantello nero.
Che corre da una postazione all’altra.
Incitando alla lotta.
Urlando ordini a un esercito che non esiste.
Un soldato al servizio di un’idea: una ribellione morale.
Pronto a sacrificare la vita. Per quell’idea.
Adriana. Sono Io.
Presente!
Non sono fuggita.
La mia: una vita in pericolo.

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