Il reportage Balkan Road nasce dalla voglia di comprendere le dinamiche migratorie indotte dalla “trappola migratoria greca”. La maggior parte dei migranti che vivevano in Grecia, o che vi transitavano, sono stati spinti a partire sia a causa della crisi economica sia dalla violenza della polizia (operazione Xenius Zeus, definita da Amnesty un “disastro umanitario”), e inoltre dagli attacchi razzisti perpetrati dai simpatizzanti del partito di estrema destra Alba dorata. I controlli nei porti e gli aeroporti sono stati aumentati, e quindi i migranti che vogliono abbandonare la Grecia sono obbligati ad intraprendere un viaggio via terra, passando attraverso la Macedonia o l’Albania, poi il Montenegro o il Kosovo fino ad arrivare in Serbia.
Dopo la costruzione del muro, altri migranti raggiungono la Serbia attraverso il passaggio in Bulgaria. L’Ungheria, sotto la pressione della Commissione Europea, ha rinforzato i controlli alla frontiera meridionale. Così i migranti sempre più numerosi si ritrovano bloccati in Serbia, nuova “anticamera” dell’Europa.
Essendo l’accoglienza dei richiedenti d’asilo dignitosa (vi erano cinque centri d’accoglienza capaci di offrire un letto e tre pasti al giorno ai migranti che hanno deposto una domanda d’asilo, ma dopo le inondazioni del giugno 2014, uno dei centri è stato chiuso e non è ancora stato riaperto), i migranti che raggiungono la Serbia possono “riprendere fiato” dopo le esperienze traumatiche vissute in Grecia e in Bulgaria.
La selezione delle immagini vuole mostrare, da un lato, l’attesa nell’anticamera serba e, dall’altro, la sopravvivenza nella città italiana che si trova proprio all’uscita dei Balcani: Trieste.
1 - Una finestra sulla noia
Mamy è una donna forte, cortese e affettuosa. D’origine somala, parla perfettamente inglese, ed è una guida e un punto di riferimento per i rifugiati del campo di Bogovadja provenienti dal Corno d’Africa. Senza indugio è stata capace di risolvere, con calma e gentilezza, le tensioni suscitate dalla nostra presenza nel centro.
L’attesa occupa la maggior parte del tempo della vita de migranti. I Palestinesi Dalal e Tahir spesso si ritrovano con Nawan, un Siriano di origine curda, sul balcone del centro d’accoglienza. Insieme, attendono l’ora dei pasti, o i soldi che la famiglia invierà loro per pagare il passatore che li porterà a Subotica, l’ultima città serba prima di entrare in Ungheria. Aspettano, accendendosi una sigaretta o bevendo un caffè, il momento opportuno per riprendere il cammino verso l’Europa occidentale.
Abdul, rifugiato sudanese, si aggira infreddolito nel cortile del centro d’accoglienza alla ricerca della sua ultima banconota da 200 dinari (1,50 EUR) che gli è caduta di tasca.
Moustafa, di origine irachena, è informatico e bodybuilder. Ha dovuto lasciare il suo paese, sua figlia e ciò che resta della sua famiglia dopo la morte di sua moglie, impiccata perché cristiana, e l’incendio della sua casa. E’ in viaggio per la Svezia, il paese che vuole raggiungere per deporre la sua domanda d’asilo e iniziare la procedura per il ricongiungimento famigliare che gli permetterà di riabbracciare sua figlia.
2 - Bricolage
Vivere in comunità a volte permette di risparmiare denaro e di beneficiare del mutuo aiuto. Nei magazzini abbandonati di Trieste, i migranti hanno costruito una grande cucina capace di fornire pasti a centocinquanta persone al giorno. Nei giorni di festa è possibile cucinare chapati in grande quantità e altri piatti tradizionali…
I migranti sono esperti viaggiatori, sanno come conservare i propri oggetti e come curare il proprio aspetto con moto poco. Conoscono utili astuzie per stirare gli abiti per esempio, o per pettinarsi e far brillare i propri capelli. A volte nascondono un piccolo sacchetto di lavanda con la biancheria all’interno del loro zaino. Un minimo per conservare la dignità nella loro erranza.
I vecchi magazzini dismessi dell’area portuale di Trieste offrono un riparo precario ai migranti che arrivano in città. La bora, un vento glaciale e tempestoso, s’insinua sotto le volte. Per proteggersi, i migranti costruiscono delle baracche con cartoni e ferri di recupero.
3 - L’anima e il corpo
Ali, 21 anni, è un richiedente d’asilo originario del Ghana accolto nel progetto italiano SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Lavora in una valigeria. Segue un corso di lingua e cultura italiana. Prega cinque volte al giorno.
Ha la passione per il calcio, si allena e gioca tre volte alla settimana. Dice di essere un buon giocatore e grazie al suo talento spesso è invitato a giocare nelle squadre locali, questo gli permette di guadagnare un po’ di soldi.
Ali ci mostra un’immagine che conserva gelosamente nel suo telefono. E’ la foto di un’amica d’infanzia rimasta in Ghana e che ora è diventata maestra. Con grande tristezza Ali mi dice:
Anche io sarei potuto diventare un maestro se non avessi lasciato il mio paese.
Sono anni che la città di Trieste ha promesso la costruzione di una moschea per la comunità musulmana della città, ma ancora nulla si è mosso. In occasione delle grandi feste religiose come per esempio per l’Aïd al-Adha, festa del sacrificio, la comunità musulmana affitta una palestra comunale.
4 - La fragilità della speranza
Palavan significa “grosso”, ma anche “forte” in lingua farsi.
E’ il soprannome di questo giovane di 24 anni di origine afghana, un ottimo giocatore di cricket. Nell’autunno del 2013 ha costruito un’altalena con la rete di un letto e un cavo d’acciaio lungo 10 metri attaccato alla volta del magazzino abbandonato; una sorta di tappeto volante che si libra sopra i rifugi precari e l’effimera quotidianità dei migranti.
Mohammad Gul Naseri, 21 anni, porta una maglietta rossa in questa foto. Era un rifugiato afghano. L’abbiamo conosciuto poco dopo che era arrivato a Trieste, viveva insieme ad altri cento migranti nei magazzini vicino alla stazione. Questa foto l’ho scattata la sera del loro trasloco presso il nuovo centro situato a Prosecco. L’associazione ICS (Ufficio rifugiati onlus) aveva infine trovato un posto riscaldato dove accogliere i richiedenti l’asilo per l’arrivo dell’inverno. Il 12 marzo 2014, mentre Gul era in coda davanti alla questura per rinnovare il suo permesso di soggiorno, ha sottratto la pistola ad un poliziotto e si è suicidato. E’ morto lì in piazza davanti a tutti.
5 - Il passato in tasca
Abdel è un rifugiato sudanese, è un ragazzo tranquillo e di poche parole. Ha abitato per sei anni in Grecia, parla correntemente greco. Per molti migranti di origini diverse, il greco è diventata la lingua franca. Delle espressioni greche, come la parola malaka per esempio, evocano la violenza delle strade d’Atene e le espressioni associate ai colpi di manganello dei poliziotti. Quella violenza che li ha spinti ad abbandonare Atene e a riprendere il cammino.
Abdel in Grecia lavorava, vicino a Kalamata, in un’azienda agricola; i suoi capi erano molto corretti con lui. Dalla sua partenza dal Sudan, aveva finalmente ritrovato un po’ di serenità e di soddisfazione nella sua vita. Quando parla del suo lavoro negli uliveti le lacrime cadono dai suoi occhi. Per farci capire ciò che prova, ci mostra alcune immagini che conserva nel suo telefono: il suo cane, i suoi colleghi, il suo capo, la sua casa. Non voleva rimettersi in marcia.
Abdel fa scorrere davanti a noi la collezione di immagini che porta gelosamente con sé. Non ha solamente dei selfie da pubblicare sui social network o da inviare ad amici e parenti, ma anche numerose immagini scattate con un senso estetico ricercato, conservate per non dimenticarsi il suo viaggio. Ci mostra una foto scattata qui in Serbia, è un ritratto di un ragazzo mentre transporta un enorme tronco sulla sua bicicletta. Abdel ci dice che anche lui spostava grandi quantità di legna per l’impresa greca nella quale lavorava. Ma a Kalamata avevano un trattore e ci dice che in Grecia non erano poveri come in Serbia!
6 - All’ombra dei muri
Yuba è algerino di origine berbera. Noi l’abbiamo conosciuto nel centro d’accoglienza di Banja Koviljača. Ha lasciato il suo paese per non fare il servizio militare. Molti giovani algerini lasciano come lui il paese per la medesima ragione. Abbiamo parlato del suo viaggio, delle sue avventure, di letteratura e politica, della nostra visione del mondo e delle frontiere. Lui è passato dalla frontiera terrestre tra la Grecia e la Turchia, dove noi lavoravamo al progetto Beyond Evros Wall. Lui però lo ha scavalcato, il muro. Si possono ancora vedere le cicatrici sulle sue mani dei tagli che il filo spinato gli ha lasciato. Yuba vuole viaggiare, scoprire il mondo, leggere, studiare ed essere libero di andare dove vuole. La Serbia non è che una tappa della sua lunga avventura.
Mahdi ha 20 anni. E’ nigeriano. Si è perso. E’ bloccato nel centro di richiedenti l’asilo di Sjenica, nel mezzo delle montagne serbe. Per arrivare in Serbia dalla Grecia è passato dall’Albania e dal Montenegro. Non ha più soldi e, a Sjenica, non è facile guadagnarne. Sopravvive, è infreddolito, spaesato, gironzola tra la camerata fumosa e la hall dell’Hotel Berlin, centro d’accoglienza dei richiedenti d’asilo. Sjenica è una cittadina a maggioranza musulmana. La moschea si trova a pochi passi dall’hotel. Mahadi non ha più nulla, non ha né la voglia, né i mezzi per continuare il suo viaggio. Ci parla del suo villaggio, dove fa sempre caldo, della sua famiglia…
Maledice il giorno che ha ascoltato suo cugino che lavora in Italia e che lo ha incitato a raggiungerlo. Vorrebbe solo ritornare a casa sua, ma la sua famiglia non capirebbe che è bloccato da qualche parte tra l’incubo greco e il sogno italiano.
7 - Creare dei legami
I fratelli Kemo e Mahmoud viaggiano con la loro madre e il fratellino. Il loro padre si trova già in Germania. Qualche mese fa si sono lasciati Bassora alle spalle. E’ una famiglia benestante, e la loro condizione economica li pone in una posizione socialmente ambigua all’interno del centro. Il denaro rende il viaggio più veloce, ma ciò non modifica la condizione precaria che condividono con tutti gli altri migranti.
Jamal è nigeriano. Ha 20 anni. Vive nel campo di rifugiati di Tutin. Come tutti gli altri rifugiati è stato ben accolto dalla comunità del villaggio musulmano. Nella valle il colore della sua pelle lo rende esotico, suscita interesse. Le ragazze sono attirate, i bambini in strada gli sorridono e gli adulti lo guardano e lo salutano. Anche se non ha un soldo, al bar il caffè e le sigarette sono sempre offerti.
Gulchì ha tre anni. Corre e gioca insieme alla sorella e al fratellino soprannominato “Iphone” a causa dell’assonanza con il suo vero nome, Ifar. Quando siamo stati nel centro di Banja Koviljača c’erano tre bambini, tre birbanti coccolati da tutti.
8 - Anche l’amore
Karim è pakistano, ha 30 anni. Nel centro d’accoglienza di Obrenovac è una sorta di ambasciatore della comunità pakistana e il braccio destro del direttore. E’ gentile e sempre disponibile a risolvere i problemi che a volte si creano tra le varie comunità. Vive nel centro dal giorno della sua apertura, sei mesi fa. Questa fotografia è la prima che gli abbiamo scattato, poco dopo il nostro incontro, e non ha voluto che riprendessi il suo volto. Poi siamo diventati amici, ha iniziato a fidarsi di me e ho scattato molte altre immagini del suo viso, e mi ha dato l’autorizzazione di utilizzarle. Nonostante ciò abbiamo deciso di pubblicare questa, per il suo messaggio d’amore…
Raha è una giovane somala molto riservata, che passa le sue giornate in camera sua con il suo smartphone. Abbiamo vissuto per circa tre settimane nello stesso centro dove lei è stata accolta, ma non l’abbiamo incontrata che alla fine del nostro soggiorno ad Obrenovac. Alla vigilia della nostra partenza, Karim mi ha preso da parte. Il suo sguardo era radioso. Ci ha chiesto di seguirlo nella hall dell’hotel perché aveva bisogno di un favore. Ci ha presentato Raha. Si erano fidanzati il giorno prima e volevano che gli facessi una foto.